La minaccia iraniana di chiudere lo Stretto di Hormuz si è rivelata molto meno incisiva di quanto i mercati finanziari temessero inizialmente, dimostrando ancora una volta come le reazioni emotive degli investitori possano divergere significativamente dalla realtà economica. Dopo il raid aereo statunitense sui siti nucleari iraniani, i social media erano stati invasi da previsioni catastrofiche su un'impennata dei prezzi del petrolio che avrebbe trascinato al ribasso azioni e criptovalute. Tuttavia, la risposta dei mercati energetici è stata sorprendentemente contenuta, con il Brent che si è limitato a un modesto rialzo dell'1,4% a 77 dollari al barile, ben lontano dai picchi apocalittici profetizzati.
Il bluff strategico di Teheran
L'esperto di mercati energetici Anas Alhajji ha definito le minacce iraniane come una tattica largamente retorica destinata al consumo interno, ricordando che dal 1980 Teheran ha brandito questa arma diplomatica almeno quindici volte senza mai concretizzarla. La chiusura dello Stretto di Hormuz comporterebbe infatti conseguenze strategiche che l'Iran difficilmente può permettersi di affrontare.
Secondo gli analisti di ING, oltre l'80% del petrolio che transita attraverso Hormuz è destinato ai mercati asiatici, il che significa che un eventuale blocco colpirebbe principalmente alleati chiave come la Cina piuttosto che i nemici dichiarati di Teheran. Una mossa del genere equivarrebbe a un autogol geopolitico di proporzioni enormi per il regime iraniano.
Le implicazioni pratiche di una chiusura impossibile
Dal punto di vista operativo, bloccare lo Stretto richiederebbe all'Iran di occupare le acque territoriali dell'Oman, dove transita la maggior parte del traffico marittimo. Tale azione scatenerebbe automaticamente il patto di difesa del Consiglio di Cooperazione del Golfo, trasformando una crisi regionale in un conflitto su vasta scala che coinvolgerebbe tutti i paesi del Golfo Persico.
Paradossalmente, una chiusura dello Stretto danneggerebbe più gli amici dell'Iran che i suoi nemici. I paesi occidentali, che non importano petrolio iraniano, potrebbero aggirare il blocco utilizzando due oleodotti attualmente sottoutilizzati, mentre nazioni come Cina e India, principali acquirenti del greggio iraniano, si troverebbero in seria difficoltà.
Bitcoin e mercati finanziari respirano
La reazione misurata del mercato petrolifero ha avuto ripercussioni positive su altri asset considerati rischiosi. Bitcoin è risalito sopra i 101.000 dollari dopo aver toccato minimi sotto quota 98.000 domenica, quando le opzioni put a breve termine quotate su Deribit mostravano un premio di volatilità dell'8-10% rispetto alle call.
I futures legati all'S&P 500 hanno registrato un calo contenuto dello 0,3%, segno che gli investitori hanno rapidamente rivalutato i rischi reali della situazione. La mancata materializzazione del temuto shock petrolifero allontana lo spettro della stagflazione, scenario particolarmente negativo per asset come le criptovalute.
L'analisi tecnica del Bitcoin mostra come i venditori non siano riusciti a consolidare posizioni sotto il supporto orizzontale di 100.430 dollari domenica. I compratori sono intervenuti proprio a quel livello, replicando il pattern già visto il 5 giugno quando i prezzi erano poi saliti fino a 110.000 dollari nei giorni successivi. Una eventuale rottura definitiva di questo supporto sposterebbe l'attenzione verso la confluenza delle medie mobili a 100 e 200 giorni, posizionate intorno ai 95.900 dollari.