Nel mondo della finanza, pochi investimenti hanno il potenziale di generare guadagni così stratosferici in un arco di tempo così breve. Cantor Fitzgerald, la storica banca d'investimento newyorkese, si trova oggi nella singolare posizione di essere sia promotrice che principale beneficiaria di un colossale round di finanziamento per Tether Holdings, l'emittente della controversa stablecoin USDT. La dimensione dell'operazione è tale da suscitare interrogativi non solo finanziari, ma anche etici sul ruolo che una banca dovrebbe svolgere quando i propri interessi patrimoniali si intrecciano con le responsabilità verso gli investitori che sta corteggiando.
La posta in gioco per Cantor Fitzgerald è di 25 miliardi di dollari, cifra che rappresenta il valore potenziale della partecipazione che l'istituto ha acquisito in Tether oltre un anno fa. All'epoca, la banca guidata da Howard Lutnick ha sborsato più di 600 milioni di dollari per un'obbligazione convertibile che le garantisce il diritto di detenere il 5% del capitale azionario dell'azienda dietro la criptovaluta ancorata al dollaro più utilizzata al mondo.
L'obiettivo dichiarato è ambizioso quanto rischioso: raccogliere circa 15 miliardi di dollari da investitori istituzionali valutando Tether a 500 miliardi di dollari complessivi. Si tratta di una cifra astronomica che pone l'azienda allo stesso livello di OpenAI, la società di Sam Altman che ha rivoluzionato il settore dell'intelligenza artificiale con ChatGPT. Per una società che emette token digitali la cui stabilità dipende dalle riserve di asset tradizionali, la valutazione appare particolarmente ardita.
Un investimento da 600 milioni che potrebbe valerne 25 miliardi
Il caso solleva questioni delicate sul conflitto di interessi insito nella doppia veste di Cantor Fitzgerald. Da un lato, la banca agisce come intermediario finanziario incaricato di presentare l'opportunità di investimento ad altri soggetti istituzionali, esercitando quella funzione di due diligence e consulenza che ci si aspetta da un advisor professionale. Dall'altro, possiede una partecipazione che, se l'operazione andasse in porto ai valori prospettati, si moltiplicherebbero per oltre quaranta volte in appena due anni.
La pressione che ogni banca d'investimento normalmente affronta nel gestire operazioni private di grande portata si amplifica esponenzialmente in questo scenario. Non si tratta solo di convincere investitori scettici a scommettere su una delle valutazioni più elevate mai viste nel settore delle criptovalute, ma di farlo mentre la banca stessa ha tutto da guadagnare dal successo dell'operazione. Una dinamica che ricorda, in scala diversa, alcuni episodi controversi della finanza italiana, dove il doppio ruolo di consulente e parte in causa ha generato più di una polemica.
L'intreccio tra Cantor Fitzgerald e l'universo crypto si è intensificato negli ultimi anni, complice anche il legame tra il CEO Lutnick e l'amministrazione Trump, nota per le sue simpatie verso il settore delle criptovalute. Tether stessa ha beneficiato di una crescente legittimazione istituzionale, nonostante le continue controversie sulla natura e trasparenza delle riserve che dovrebbero garantire il valore dei suoi token. La società ha affrontato indagini normative in diverse giurisdizioni e continua a operare in una zona grigia della regolamentazione finanziaria globale.
Per gli investitori che Cantor sta corteggiando, la decisione di entrare nell'operazione comporta considerazioni che vanno oltre i puri numeri. La stessa presenza della banca come azionista significativo potrebbe essere interpretata in due modi opposti: come garanzia di serietà e supporto istituzionale, oppure come segnale di allarme su quanto l'advisor possa essere obiettivo nel valutare rischi e opportunità. Un dilemma che nel panorama finanziario contemporaneo si presenta con frequenza crescente, man mano che le linee tra consulenti, investitori e promotori diventano sempre più sfumate.
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