Il dibattito sull'impatto ambientale del Bitcoin ha raggiunto nel 2025 una fase cruciale, con dati aggiornati che ridisegnano il quadro della sostenibilità delle criptovalute. Secondo il Cambridge Digital Mining Industry Report 2025, il consumo elettrico annuale della rete Bitcoin si attesta attualmente sui 138 TWh, con emissioni complessive stimate in circa 39,8 megatonnellate di CO₂ equivalente. Questi numeri collocano l'attività di mining su una scala paragonabile al fabbisogno energetico di nazioni di medie dimensioni, alimentando un confronto sempre più serrato tra innovazione finanziaria e responsabilità ecologica.
La ricerca accademica più recente ha ampliato l'analisi oltre il semplice consumo elettrico, portando alla luce una realtà multidimensionale. Uno studio del 2023 firmato da Chamanara e colleghi ha valutato l'utilizzo energetico del mining a circa 173 TWh, includendo però anche parametri ambientali aggiuntivi come il consumo di acqua dolce e l'occupazione del territorio. Le Nazioni Unite hanno lanciato l'allarme sul prelievo massiccio di risorse idriche in aree già caratterizzate da scarsità, mentre de Vries ha stimato la produzione annuale di rifiuti elettronici in decine di migliaia di tonnellate, derivanti dalla dismissione degli apparecchi ASIC che i miner sostituiscono ogni paio d'anni.
Il modello di proof-of-work utilizzato da Bitcoin rappresenta il cuore di questa controversia ambientale. Fin dal lancio della criptovaluta nel 2009, questo sistema ha garantito sicurezza e decentralizzazione alla rete, ma ha anche legato indissolubilmente la finanza digitale a costi energetici tangibili. Il consumo non segue una linea costante, bensì oscilla in base ai cicli di mercato: quando il prezzo del Bitcoin sale, i miner attivano più macchine aumentando l'hashrate e la difficoltà della rete, con conseguente impennata della domanda elettrica. Al contrario, durante le fasi ribassiste, gli impianti meno efficienti vengono spenti.
L'esempio di Ethereum ha però dimostrato che esistono alternative praticabili. Nel settembre 2022, con il passaggio al proof-of-stake attraverso il cosiddetto Merge, la seconda blockchain più importante ha ridotto il proprio consumo energetico del 99,9% praticamente da un giorno all'altro, mantenendo intatte funzionalità e sicurezza. Questa transizione ha posto interrogativi scomodi per Bitcoin: se un'altra importante blockchain può offrire garanzie equivalenti senza lo stesso dispendio energetico, perché non seguire la stessa strada?
I sostenitori del proof-of-work rispondono che questo meccanismo costituisce l'essenza stessa di Bitcoin, garantendone la sicurezza incorruttibile e apolitica. I detrattori invece avvertono che l'ostinazione nel mantenere questo sistema rischia di provocare contraccolpi politici, tasse sul carbonio o addirittura divieti in determinate giurisdizioni. La questione divide profondamente la comunità, contrapponendo puristi tecnologici e ambientalisti in un confronto che va oltre la semplice efficienza energetica.
Alcuni operatori del settore stanno comunque tentando di capovolgere la narrazione, posizionando il mining come parte della soluzione anziché del problema. In Texas, diverse mining farm hanno siglato accordi con i gestori della rete elettrica per ridurre il consumo nei momenti di picco della domanda. In Islanda e Canada, gli impianti si alimentano prevalentemente con energia idroelettrica a basso costo. Ricerche ingegneristiche recenti esplorano persino la possibilità di utilizzare il mining per monetizzare il metano in eccesso dalle discariche o l'energia rinnovabile altrimenti sprecata.
La narrativa ottimistica dipinge il mining di Bitcoin come un potenziale "acquirente di ultima istanza" per l'energia verde in surplus, contribuendo a compensare la variabilità nella produzione solare ed eolica. Studi come quello di Hossain e Steigner del 2024 suggeriscono che, in condizioni appropriate, l'attività mineraria potrebbe diventare un motore economico per progetti di energia rinnovabile. Tuttavia, il verdetto finale è ancora aperto: che i miner accelerino effettivamente la transizione verde o semplicemente inseguano opportunisticamente l'energia più economica dipende da fattori geografici, incentivi economici e regolamentazione.
Un dato significativo emerge dal rapporto di Cambridge: nel 2025, il 52,4% dell'energia utilizzata dai miner proviene da fonti sostenibili, includendo rinnovabili e nucleare. Questo dato offre una prospettiva più articolata rispetto alle semplici cifre sul consumo totale, dimostrando che il mix energetico del settore sta evolvendo. La differenza tra un impianto di mining alimentato a carbone in Kazakistan e una farm idroelettrica in Québec è sostanziale, e qualsiasi valutazione seria deve considerare queste sfumature.
La pressione politica è destinata ad aumentare nei prossimi anni. I governi non si limiteranno più a chiedere "quanta energia consuma?", ma vorranno sapere che tipo di energia viene utilizzata, dove sono localizzati gli impianti e quali esternalità ambientali comportano. L'approccio olistico alla valutazione dell'impatto include ormai elettricità, emissioni di carbonio, consumo idrico, utilizzo del territorio e gestione dei rifiuti elettronici. Nel confronto con altre blockchain che hanno optato per meccanismi meno energivori, Bitcoin porta sempre con sé la questione energetica.
Il futuro della principale criptovaluta al mondo dipenderà dalle scelte concrete che miner, legislatori e comunità locali faranno nei prossimi anni. Trasformarsi in un alleato inaspettato della transizione verde o rimanere un antagonista climatico non è un destino segnato, ma il risultato di decisioni operative e normative. Una certezza emerge con chiarezza: nel mondo delle criptovalute, ciò che è invisibile non è privo di peso. Il denaro digitale resta indissolubilmente legato alle reti elettriche e alle risorse del pianeta, rendendo illusoria qualsiasi pretesa di immaterialità.